martedì 8 novembre 2016

Blessed Benefit


Ahmad è quel che si dice un "piccolo truffatore", finito in prigione per un debito di 1800 dinari. Poiché siamo in Giordania,  la cifra dovrebbe corrispondere più o meno a 2294 euro. In carcere, manco a dirlo, la vita scorre in maniera più ordinata e regolare che fuori, dove Ahmad passa il tempo (essendo di formazione "operaio edile") a "rubare" l'elettricità o a rivendere oggetti rubati. Con tanto di moglie che lo insegue (come da copione) attraverso il cellulare.
Niente di nuovo si potrebbe dire, nel soggetto così come nella trama (un uomo si rende conto che la vita in prigione scorre più ordinata di quella fuori) del film di Mahmoud Al Massad. Non solo soggetto e trama, ma anche il linguaggio cinematografico ricordano certo nostro "neorealismo", o altri prison movie (Daunbailò, per esempio) che al nostro neorealismo si rifanno, con quei personaggi così attaccati all'esistenza e così dall'esistenza, buffamente, rifiutati. In carcere si prende il sole, si fanno buone azioni (come quando si restituiscono le foto che altri avevano buttato all'aria, ai compagni di cella), si gioca a pallone. Il problema vero è il fuori: con quell'avvocato che si presenta al protagonista, già in carcere, solo per portargli via dei soldi; con quelle persone che gli chiedono disponibilità economiche che non ha. "Dopo che hanno occupato la Terra Santa tutto può succedere", lui dirà, verso la fine del film, ormai sulla via della rassegnazione. 
Gli interpreti hanno le facce sporche di chi vive per strada, sul serio, la maggior parte del tempo; le mura delle carceri non mostrano segni di abbellimento finalizzati a (più o meno) raffinate operazioni scenografiche; i modi di muoversi e parlare dei protagonisti sono quelli di persone disinvolte davanti alla macchina da presa (quando lo sono) perché disinvolte nella vita reale. Tutto ricorda quanto poco la felicità (o l'equilibrio, o il benessere) di una persona dipenda dai soldi che ha in tasca. Certo, senza soldi non si vive (è ciò che il film racconta) ma che siano i legami e le relazioni a definire gli individui e le loro vite, è mostrato benissimo.
"Ecco la pecora, prendiamola!", urla nel sogno di Ahmad il cugino  (lo stesso che dovrebbe provvedere a pagare la cauzione per farlo uscire dalla prigione), prima di lanciarsi al suo inseguimento. Nella realtà, la pecora ("nostrana") è richiesta per un banchetto matrimoniale. Ma anche il povero Ahmad, nella vita reale, non è troppo dissimile da una docile, mite pecora. In realtà, tutti i personaggi che troviamo nella prigione, sembrano avere tratti improntati a un'eccessiva mitezza, oltre che ingenuità. Se uno è stato fregato dalla moglie, ed è per questo finito dentro, l'altro è alla moglie che pensa tutto il tempo e di lei parla, appena può. C'è un misto di ironia e tenerezza, in questi carcerati. Buffi (anche se tronfi e antipatici) anche quelli che gestiscono il potere: le guardie, il giudice, il sindaco. Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che, nella realtà, le carceri in Giordania siano un luogo molto più crudele e pericoloso di quelle descritte da Al Massad. E' vero, però, che non è (solo) compito del cinema riportare alla memoria i fatti veri, le situazioni concrete, le "lacrime e il sangue" in cui le persone trascorrono l'esistenza. Anzi, se il disagio e la sofferenza sono ciò cui l'essere umano è tenuto a ribellarsi, quali migliori armi che la non-rassegnazione e l'ironia? E ancora: che per attraversare situazioni politiche e umane particolarmente pericolose servano freddezza e distacco, è un'altra delle verità del film che vale la pena ricordare. 

lunedì 7 novembre 2016

La pazza gioia


Volevo capire come mai il film di Virzì non fosse stato preso in concorso a Cannes, e così dopo la prima, l’ho visto anche la seconda volta.
La trama è nota: due donne di età e classi sociali diverse, Beatrice e Donatella, costrette a stare in una comunità per “donne disturbate”, riescono a fuggire.
Devo essere sincera, tolte due o tre «cosette» – come le definirebbe il personaggio della Bruni Tedeschi nella storia – trovo sia un film gradevole. Una «commediaccia», certo, in linea con un genere tipicamente – mi viene da dire «esclusivamente» – italiano, ma pieno di cose buone. Le attrici innanzitutto. Devo ammettere che, per certi aspetti, e forse per questione generazionale, mi verrebbe da dire «l’attrice». Trovo Valeria Bruna Tedeschi non solo brava, ma anche «colta» (quando si incattivisce, in questo “La pazza gioia”, tira fuori sprazzi da Bette Davis in «Che fine ha fatto Baby Jane?»), oltre che, come Bette Davis, spiritosa quanto crudele. Micaela Ramazzotti la conosciamo. È generosa,  intelligente, materna abbastanza per sostenere la parte, e, come al solito – ed è un merito – al servizio del film. È bella anche la sceneggiatura, forse con qualche lungaggine di troppo, e un po’ di caratteri maschili che, se non fossimo in Italia, renderebbero la storia leggermente caricaturale: mi riferisco all’ex-amante di Beatrice (la Bruni Tedeschi, nel film) che le fa la pipì in testa dal balcone,  ma in qualche modo anche all’ex marito della stessa che è così tontolone da riuscire a vederla solo come una «bomba del sesso»;  così come al gestore della discoteca, l’uomo con cui Donatella  (Ramazzotti) ha fatto un figlio e che è letteralmente terrorizzato da lei, nonostante che noi non sappiamo esattamente il perché.
Costituiscono, questi tre, quattro soggetti – se ci mettiamo anche il tipo cui, all’inizio della storia, le due rubano la macchina, che vorrebbe subito fare sesso a tre: «ci ha scambiato per due puttane!», dice la giovane, e giustamente si incazza; ma così non può essere: se le avesse scambiate per due prostitute sarebbe tutto molto più chiaro, come sempre quando vi siano di mezzo i soldi, e invece no – un universo di meschinità e di scempiaggini gratuite, un po’ assurde, a volte francamente incomprensibili. Tutto succede in modo tale, da far pensare che i gesti degli uomini servano quasi esclusivamente a fare andare avanti la storia. Poi, se ripensi a certe cronache del nostro paese, ti dici che no, «Effettivamente, è vero, potrebbe succedere, perché no?». E ti viene da pensare che però forse sono state proprio queste caratteristiche a far propendere i francesi per una sorta di improbabilità, una «caricaturalità» appunto, del film, la proposizione a tavolino di un «diagramma a tesi», una tesi già vista.
Dico questo perché, qualsiasi sia la molla che muove  questi uomini (che siano la paura, il piacere, la pura e semplice beffa) ciò che li accomuna è la sicurezza assoluta che le loro azioni non avranno conseguenza alcuna, avendo essi a che fare con due «donne» – non solo, ma con – «due matte». Cosa, questa della sicurezza maschile basata esclusivamente sulla radicalizzazione del conflitto (fra pazzi, mi verrebbe da dire), nella realtà italiana tutt’altro che improbabile.
E funziona quindi, questa sceneggiatura (anche se forse, con delle lungaggini di troppo, quando per esempio Donatella alla fine racconta quello che sappiamo sin dall’inizio, e si capisce che è un po’ un modo per aggiungere un tocco di romanticismo, e rivedere, tra un’ondata e l’altra, sottacqua, ciò che le è successo e il motivo per cui è finita a Villa Biondi), scritta da Francesca Archibugi con Virzì. Un dubbio che avevo mentre guardavo il film, e che ancora ho, riguarda la «salute mentale» di chi gestisce la comunità: questo universo di paramedici, assistenti sociali, medici, direttori raccontati con un occhio forse un po’ troppo benevolo.
E non perché in Italia non vi siano «comunità» di quel tipo, situazioni cioè in cui la suora dà una mano alla dottoressa (bravissima anche Valentina Carnelutti, nella parte), molto di più di quanto possa farlo la parente di una ricoverata o l’assistente sociale. Però su questo, qualcosa da dire ce l’avrei, perché secondo me a volte sono proprio le «comunità» territoriali (la scuola, le parrocchie, le comunità amicali) ma non solo, in qualche modo anche la cosiddetta «rete di controllo sociale» in generale, a distinguere troppo tra «buono e cattivo», tra «bene e male» – a realizzare quindi, un meccanismo di «esclusione» – dando con ciò origine, proprio ai disturbi che, anni dopo, nella stessa persona andranno a (tentare di) curare. Mi spiego: tutto sommato entrambe queste donne, pur se appartenenti a diverse classi sociali possono scegliere solo fra le discoteche, la vacuità più totale, due madri più pazze di loro, e delle comunità che – anche se formate da brave persone, appaiono sinceramente – e in questo la Beatrice ha ragione – molto «noiose».
Che fanno, infatti, i «lavoratori» e le «lavoratrici» di quella comunità fuori da lì? In questo senso parlo di «salute mentale». Chi sono? Come vivono? Sono solo dediti e dedite ai folli e alle folli? O forse è solo la sceneggiatura che qui, sì davvero, è carente? Come vive, chi è la dottoressa? Cosa fa, quando esce la sera il direttore? O (e non mi pare che sia così) è la discoteca in sè che non va bene, è il lungomare d’estate (o la piscina, peggio ancora, per carità) a far casino, e così tanto, in modo così drammatico nella vita di queste due donne? Se stanno male per colpa degli uomini, e gli uomini sono delle «macchiette», c’è o no qualcosa che non va? Come si fa, allora, ad ammalarsi per uomini così?  Non saranno anche loro, per «non andare fuori tema», costrette dalla sceneggiatura, a diventarlo? E se non sono gli uomini a renderle così, che cos’è? «Noi siamo nate tristi», si dicono ad un certo punto. Sarà. Contro la tristezza neanche lo «scoutismo da comunità» potrà nulla, mi sa.
Belli i costumi di Katia Dottori, studiati «per scena» quasi come i personaggi fossero protagonisti di quadri e non di sequenze narrative; belle le musiche di Carlo Virzì, mai sovrabbondanti, così come bella è la fotografia fortemente contrastata (goccioline su pelli sudate, capelli crespi che invadono lo schermo di tinte, colori delle camicie che fanno male agli occhi) di Radovic; brava Cecilia Zanuso per il montaggio.

domenica 6 novembre 2016

The accountant




D'accordo il potere dell'arte, d'accordo la forza dell'amore, d'accordo la capacità dei genitori di distruggere (o migliorare) la vita dei figli, d'accordo pure la possibilità di cambiare la faccia delle cose attraverso la potenza fisica (e morale), ma se queste cose le trovi tutte assieme, in un film solo, non sarà un po' troppo? Sto parlando di "The accountant", il film di Gavin O'Connor, con Ben Affleck e Anna Kendrick, che parla di un uomo, un contabile affetto da autismo che a grugno duro (ma quante volte l'abbiamo visto, il personaggio afflitto da autismo che sviluppa talenti e coraggio inimmaginabili, come sostituti della socialità che non gli riesce invece mica tanto bene?) e, senza mai sorridere (almeno in tutta la prima ora di film), deve tenere testa (prima a un padre fetente, poi) a ladroni matricolati, furbacchioni esperti in frodi fiscali che vogliono letteralmente fargli esplodere la roulotte (e l'ufficio) sotto le chiappe. Meno di tutto convince la descrizione dei quadri, per quanto di Renoir e di Pollock (e dell'arte in generale) come di un materiale dal "magico potere". Fa impressione (in negativo, e subito "americanata") vedere come la coprotagonista, ragazza non esperta (è figlia di un contabile, vuoi mettere in quanto a ignoranza in materie umanistiche?), identifichi il quadro e gli si avvicini, come attratta inevitabilmente da esso. Ma quando mai, nella realtà? Non solo. Lo accarezza (mai, toccare un quadro, non gliel'hanno insegnato che si rovina?) e poi lo guarda per un minuto buono, come se fosse un "tramonto luminescente", incantata, rapita. Prendo l'esempio del tramonto luminescente perché è una cosa (quella sì, davvero) di, come si dice, "fruizione immediata", e che davvero incanta e rapisce tutti. Se davvero l'arte avesse questo magico potere, se davvero facesse scattare immediatamente in avanti le dita e (come un tramonto luminescente) avvolgesse vita e menti delle persone! Ah, come sarebbe bella e diversa la vita. (Belli i Pollock nel film e però da soli, come tutto, non servono a smuovere di un millimetro, la - a tratti - banalità del film. E così, la musica dei Radiohead).  

Next Stop: Utopia



Grecia, Salonicco, durante gli anni della crisi. Una fabbrica di materiali da costruzione chiude, nessuno dei 70 operai (tutti maschi) che ci lavoravano dentro viene pagato. I lavoratori occupano. La proprietaria della fabbrica pensa che non ne abbiano il diritto: sono degli impostori, dice nelle interviste, usano impianti e strutture che non sono le loro. I lavoratori provano a gestire la fabbrica col sistema della democrazia diretta: qualsiasi decisione deve essere presa dopo aver votato. I settanta usano gli impianti (o la parte che riescono a far funzionare, perché gli vengono staccate luce e acqua) per mettersi a fare sapone ecologico. Intanto discutono, litigano: c'è chi vuole andare avanti, chi vuole mollare perché quel che entra è poco, qualcuno ci rimette i propri guadagni. La storia intanto fa il giro della Grecia, e poi dell'Europa, arriva negli Stati Uniti. Tsipras dà agli operai tutto il suo appoggio. Si cerca una soluzione con il Ministro dell'Economia, che però non arriverà. Arriva Naomi Klein a presentare il suo libro ("Shock Economy") e a portare la sua solidarietà. Agli operai, dopo più di un anno di occupazione vengono dati altri impianti, continueranno a fare sapone ecologico. Intanto i settanta litigano: metà di loro va via, l'altra metà resta. Arriveranno a litigare in tribunale. Ma il sogno di andare avanti, di costruire una piccola democrazia e un sistema di convivenza migliore sul lavoro e fuori, restano. La fabbrica di materiali da costruzione è diventata un luogo simbolo e non solo per la Grecia: le sue strutture vengono usate ancora oggi per tenervi concerti, presentare libri, fare incontri sulla pace, sulla democrazia. La proprietaria, secondo la sentenza, avrebbe dovuto affrontate due anni di carcere, per non aver pagato gli operai. Ha fatto servizio sociale. Un bell'esempio non solo di cosa sia un buon documentario, ma anche di come si possa diffondere un'idea di politica che non sia solo impastrocchiate discussioni televisive. Apostolos Karakis, il regista, ha seguito le vicende della fabbrica per più di due anni. 

sabato 5 novembre 2016

Brooks, meadows and lovely faces



Ha inaugurato la 22esima edizione del Medfilm Festival a Roma, (che andrà avanti fino al 12 novembre), il film di Yousry Nasrallah. Il maestro del cinema egiziano, in questa ultima, vivace impresa cerca di tenere assieme ironia e tragedia. La storia di una famiglia che possiede una locanda dove ben si cucina e ben si mangia è un'occasione per parlare d'amore, sessualità, modo di stare al mondo delle donne e degli uomini egiziani. Non è la morte, il più grave problema, in una simile società, sembra dire il regista, ma l'incapacità di chi appartiene alle classi alte (uomini e donne che gestiscono il potere) di capire, sentire e riflettere su cosa davvero significhi una vita buona.    

Indivisibili





Due giovanissime gemelli siamesi, sfruttate dal padre, un po' esaurito un po' stronzo, si esibiscono come cantanti sul litorale Domizio per matrimoni o per parrocchiani in cerca di miracoli. E un definitivo fenomeno da baraccone vorrebbe farle diventare, lo sventurato genitore. Se non che...la comunità - una comunità che non ha faccia, né nome, non ha eroi, né assistenti sociali che si prodighino - salva le due ragazzine. Certo, molto si deve alla personalità di Desy e Viola: bravissime le attrici, oltre che belle. Ma sul fatto che da sole, le due ragazzine non ce l'avrebbero fatta, il giudizio dell'autore è netto. Non starò a dire i particolari, di questo bel film, che merita di essere visto. L'opera di De Angelis sceglie un finale estremamente originale, rispetto a tutte le narrazioni - e sono tante - contemporanee che si occupano di degrado: una società civile, anche se non si vede, esiste, in Italia. Anche nelle zone, come quella scelta dall'autore che, secondo stampa e mass media non hanno possibilità di futuro. Il film mi ha fatto pensare a una frase che diceva sempre Giovanni Bollea, il neuropsichiatra infantile morto in tarda età, qualche anno fa, e che sempre mi colpiva: "L'Italia è un paese dove un bambino potrebbe fare un viaggio da solo dalla Sicilia a Milano, troverebbe sempre qualcuno disposto ad aiutarlo". In questa opera, nonostante tutte le traversie delle due giovani, questo principio è mostrato, non detto. 

Parola di Dio


E' uscito da una settimana in Italia, un bellissimo film, l'ultimo di Kirill Serebrennikov, col titolo "Parola di Dio". Una riflessione sul pregiudizio (religioso e non) come vero e proprio male sociale. Un'illustrazione accurata e precisa dei danni cui portano ignoranza e superstizione, in un contesto e in un paese come la Russia, dove la religione (vedi Italia, pure) gioca un ruolo fondamentale nella società.