Ahmad è quel che si dice un "piccolo truffatore", finito in prigione per un debito di 1800 dinari. Poiché siamo in Giordania, la cifra dovrebbe corrispondere più o meno a 2294 euro. In carcere, manco a dirlo, la vita scorre in maniera più ordinata e regolare che fuori, dove Ahmad passa il tempo (essendo di formazione "operaio edile") a "rubare" l'elettricità o a rivendere oggetti rubati. Con tanto di moglie che lo insegue (come da copione) attraverso il cellulare.
Niente di nuovo si potrebbe dire, nel soggetto così come nella trama (un uomo si rende conto che la vita in prigione scorre più ordinata di quella fuori) del film di Mahmoud Al Massad. Non solo soggetto e trama, ma anche il linguaggio cinematografico ricordano certo nostro "neorealismo", o altri prison movie (Daunbailò, per esempio) che al nostro neorealismo si rifanno, con quei personaggi così attaccati all'esistenza e così dall'esistenza, buffamente, rifiutati. In carcere si prende il sole, si fanno buone azioni (come quando si restituiscono le foto che altri avevano buttato all'aria, ai compagni di cella), si gioca a pallone. Il problema vero è il fuori: con quell'avvocato che si presenta al protagonista, già in carcere, solo per portargli via dei soldi; con quelle persone che gli chiedono disponibilità economiche che non ha. "Dopo che hanno occupato la Terra Santa tutto può succedere", lui dirà, verso la fine del film, ormai sulla via della rassegnazione. Gli interpreti hanno le facce sporche di chi vive per strada, sul serio, la maggior parte del tempo; le mura delle carceri non mostrano segni di abbellimento finalizzati a (più o meno) raffinate operazioni scenografiche; i modi di muoversi e parlare dei protagonisti sono quelli di persone disinvolte davanti alla macchina da presa (quando lo sono) perché disinvolte nella vita reale. Tutto ricorda quanto poco la felicità (o l'equilibrio, o il benessere) di una persona dipenda dai soldi che ha in tasca. Certo, senza soldi non si vive (è ciò che il film racconta) ma che siano i legami e le relazioni a definire gli individui e le loro vite, è mostrato benissimo.
"Ecco la pecora, prendiamola!", urla nel sogno di Ahmad il cugino (lo stesso che dovrebbe provvedere a pagare la cauzione per farlo uscire dalla prigione), prima di lanciarsi al suo inseguimento. Nella realtà, la pecora ("nostrana") è richiesta per un banchetto matrimoniale. Ma anche il povero Ahmad, nella vita reale, non è troppo dissimile da una docile, mite pecora. In realtà, tutti i personaggi che troviamo nella prigione, sembrano avere tratti improntati a un'eccessiva mitezza, oltre che ingenuità. Se uno è stato fregato dalla moglie, ed è per questo finito dentro, l'altro è alla moglie che pensa tutto il tempo e di lei parla, appena può. C'è un misto di ironia e tenerezza, in questi carcerati. Buffi (anche se tronfi e antipatici) anche quelli che gestiscono il potere: le guardie, il giudice, il sindaco. Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che, nella realtà, le carceri in Giordania siano un luogo molto più crudele e pericoloso di quelle descritte da Al Massad. E' vero, però, che non è (solo) compito del cinema riportare alla memoria i fatti veri, le situazioni concrete, le "lacrime e il sangue" in cui le persone trascorrono l'esistenza. Anzi, se il disagio e la sofferenza sono ciò cui l'essere umano è tenuto a ribellarsi, quali migliori armi che la non-rassegnazione e l'ironia? E ancora: che per attraversare situazioni politiche e umane particolarmente pericolose servano freddezza e distacco, è un'altra delle verità del film che vale la pena ricordare.